A voi, una pagina della scrittrice salentina, “Storie di gatti”, da La Zagaglia, rivista di letteratura edita a Lecce
di Rina Durante
Volti
appena intravisti, che stanno in casa mia come nella loro. Sono qui da quando
papà entrò in agonia. Subito dopo la morte si son messe in movimento, hanno
cominciato a rimuovere quadri, a spostare mobili, a cambiare di posto gli oggetti,
occupando tutta la casa, ogni stanza, ogni cantuccio. Finché la casa si è
completamente trasformata, come se sotto le loro mani avesse scoperto un volto
segreto di cui prima non avresti sospettato l'esistenza. Non è più quella di
prima, ma un'altra completamente intonata alle loro facce. E questo ti
sorprende ora, ti ferisce quasi come un inatteso
colpo
mancino; fa male questa realtà nuova aperta a tutti gli sguardi.
Come
la casa, tutti qui sono rassegnati alla nuova situazione. Quello che mi separa
nettamente da loro è questo. Per cominciare avrei voluto rimanere sola. Avrei potuto
tentare di orientarmi. Il non aver potuto
farlo
mi ha bloccata sin dal principio. E' stata cosa facile perciò liquidare il
pianto. Solo ora che l'universale disapprovazione mi è significata attraverso
sguardi freddi che mi culminano da ogni parte, solo ora mi prende il sospetto
che dentro di me qualcosa non funziona più come dovrebbe. Quello che tu credevi
letteratura è il fondo della tua coscienza, è questo dominio lucido del sangue,
ha neutralizzato ogni istinto. Penso ai buoni letterati dell'ottocento che
vagheggiavano l'isola selvaggia, luogo di ritrovamento della innocenza
primigenia. Riconosco che ho paventato questo momento, ma che un desiderio
covavo inconfessato di trovarmi faccia a faccia col mio io più profondo,
sentimento
puro,
istinto vergine, incontrollato, ancestrale. Ma questo incontro non si è
verificato neppure ora. E' un po' triste.
Prosegue
con ritmo costante l'arrivo dei visitatori. Arriva « lu cicatu ». Ma come è entrato
qui?, domandano allarmatissimi gli occhi di zia Ninuccia, mentre lui siede, con
vivo disappunto dei presenti, al funerale dei signori. Saettato da sguardi
gelidi che neppure le sue pupille semispente possono eludere, « lu cicatu »
dura nella sua posizione pochi minuti, poi esce con sollievo generale. Non ha
dato la mano a nessuno. Se l'avesse fatto c'era il caso che inciampasse nel
tappeto. A questo punto un riso lontano mi formicola nel petto, mi prefigura
una possibile liberazione. Ne approfitto per muovere le gambe, accenno ad alzarmi.
Le pupille di mia madre vibrano un disappunto feroce, m'impongo di non
muovermi. I quattro ceri consumano tranquilli lo scarso ossigeno rimasto a
disposizione. Guardo il cadavere di mio padre chiuso in un abito borghese. Non
formulo nessun pensiero, ma il passato, il ricordo è un'unica cieca presenza
che brucia nel petto. E' atroce che egli sia di fronte, disteso nella bara,
vestito come un lord; che debba durare in questa posizione sino alla fine della
cerimonia, mentre più logico sarebbe seppellirlo subito, prima che la puzza
invada la stanza. Intanto mi ripugna scoprire che c'è in fondo un'intenzione
segreta di considerarmi la sola capace di preoccupazione di questo genere.