Anni
fa, quando diventammo amici, Rina mi dedicò “La Malapianta” con questa frase:
“A Giovanni, che sa tutto di me e, per fortuna, non lo dice”. Lei si riferiva a
piccoli problemi di famiglia che mi aveva comunicato nella speranza di qualche
soluzione.
Abbiamo
avuto da Caterina Gerardi, io e mia moglie Marisa, meno di due mesi fa, quello
che lei stessa ha definito “un libro, un dono, un abbraccio”. Perché collego le
due dediche? Perché ora “so tutto” di Rina. Il lavoro di Caterina costituito da
uno splendido film-documento L’isola di
Rina. Ritorno a Saseno, titolo che è anche del libro che ha
scritti-testimonianze della stessa Rina, di Caterina, di Ada Donno, Rosella
Simone, Diana Chuli, Tatjana Kurtiki, Luisa Ruggio, Daniela Grifi. Metto alla
fine Pia Durante, sorella di Rina, perché ha anche un ruolo importante nel
documentario di cui si parlava prima.
Se
Rina fosse ancora viva, potrei dirle: “Cara Rina, solo ora “so tutto di te”,
grazie a Caterina e al suo lavoro. E, con quella documentazione, non solo io ti
conosco a tutto tondo ma ti potranno conoscere tutti.
Rina (in piedi) e le sorelle vicino la casa di Saseno
Il
lavoro fatto da Caterina Gerardi di memorie (non in memoria) pone un punto
fermo sulla scarsa letteratura che è disponibile oggi sulla intellettuale
salentina. Il filmato “Ritorno a Saseno” , che cuce immagini rare (quelle
dell’infanzia di Rina) con immagini della contemporaneità, amplia anche dal
punto di vista qualitativo e documentaristico l’archivio della memoria. Le voci
che ascoltiamo sono quella di Rina, di Caterina, di Pia.
Ne
esce un quadro abbastanza ricco e puntuale che si confronta con le memorie di
alcuni di noi. E quella bambina di Saseno è rinata in quest’opera composita di
Caterina, donna vulcanica e creativa che io conosco dagli anni ‘60 quando
studiava per gli esami universitari con mia sorella Antonietta, che oggi,
purtroppo, non può apprezzare il valore della antica compagna di studi.
Di
Rina Durante sentivo parlare spesso durante la mia giovinezza. Era la giovane
scrittrice che si era trasferita a Roma anche per avere una solida piattaforma
di lancio, adeguata all’incipiente notorietà nazionale. Poi, delusa
dall’ingorgo umano costituito dalla capitale, dalla burocratizzazione anche di
strutture culturali, come il Sindacato Nazionale Scrittori, che sarebbero
dovute rimanere agenzie di supporto agli artisti e agli operatori culturali,
lei tornò nel Salento e riprese l’insegnamento.
Riallacciò
i suoi rapporti vitali con personaggi decisivi, come Adriano Barbano, fotografo
e regista, con cui Rina girò il film “Tramontana”. Barbano, morto relativamente
giovane, fu il pioniere nel Salento della televisione via cavo e poi via etere.
Vittorio Pagano, poeta “maudit” tanto
meno letto quanto più evocato nell’interno della triade salentina (Comi, Bodini,
Pagano), che scimmiotta le tre “corone” del primo Novecento (Carducci, Pascoli,
D’Annunzio). Con Comi, la sua Accademia lucugnanese e la rivista “L’Albero”,
Rina Durante e Maria Corti avevano fatto l’ingresso nel mondo della letteratura
dalla porta principale.
Dopo
lo sfilacciamento dell’esperimento di Lucugnano, mentre la Corti proseguì la
sua carriera universitaria a Pavia, con una breve parentesi a Lecce (sede che
non ha mai amato), Rina riprese la sua paziente tessitura grafica, la sua
attività di docente nella scuola media e superiore. Poi l’importante parentesi
romana che lei ricordava, negli ultimi tempi, senza grosso entusiasmo. “La
Malapianta”, pubblicata con Rizzoli, le fece ottenere, a metà degli anni
sessanta il Premio Salento: unica donna salentina, unico premiato salentino in
assoluto in quelle edizioni prestigiose di circa quindici anni che si chiusero
con quel riconoscimento.
Tornata
da noi, si rituffò, con la sconsiderata generosità di sempre, nella viscere
della nostra cultura. Nei primi anni settanta fondò il “Canzoniere grecanico
salentino” che riprendeva, in tempo reale, ciò che avveniva nell’ambito
nazionale, cioè la scoperta della etnomusica e della musica folklorica. Erano i
tempi del “Nuovo Canzoniere Italiano”, di Giovanna Marini, che la Durante
accompagnava in giro per le sue ricerche nel Salento, ma soprattutto erano i
tempi della “Nuova Compagnia di Canto Popolare”, di quel Roberto De Simone che
era stato vicino al demartiniano Diego Carpitella, a cui oggi è dedicato un
Centro a Melpignano.
Rina
Durante si spese così, monopolizzata dal suo interesse per le radici,
l’identità e l’autenticità, non avendo mai paura di dire e scrivere cose
“irregolari” di sé e degli altri. Quello che scrisse, nell’ultimo volume uscito
con lei viva, disse alcune cose su Vittorio Pagano che le costarono l’amicizia
e il saluto della sorella del poeta. Ma lei, sempre sorridendo, diceva che
aveva detto solo cose vere. Perché prendersela?
Io
l’ho conosciuta di persona, in maniera stretta e amichevole, nell’ultimo
decennio. Era già pensionata, e le sue esiguissime risorse servivano anche ad
una rete di parenti, di nipoti ed altro, nei confronti dei quali ella ha avuto
sempre l’atteggiamento della chioccia protettiva. E ce n’era bisogno. La
coinvolsi in una operazione politica. Organizzai per le elezioni comunali del
’98 una lista civica con programma ispirato all’Ulivo. Lei, socialista
nell’anima, accettò di buon grado, direi goliardicamente, di candidarsi. Se
ricordo bene, fece solo un incontro di donne nella casa di un’amica a San
Cesario ed un incontro letterario e teatrale in una stanza dei Salesiani. Ebbe
pochissimi voti, ma si divertì moltissimo. Anche per i pochissimi voti.
Come
ha scritto Maria Forcina in un testo apparso su “Via Dogana”, Rina ripeteva
spesso che tutto quello che sapeva l’aveva appreso da sua madre, la sua prima
maestra. Ed era vero: così torniamo all’opera di Caterina dove i passaggi
biografici sono sottolineati. Non solo perché aveva passato la sua infanzia di
fronte alla baia di Valona, nell’isola di Saseno, anche oggetto specifico della
documentazione filmica di Caterina Gerardi. A Saseno, dove il padre era stato
inviato come comandante della Marina Militare, lei e le sorelle impararono a
leggere e scrivere, grazie alla madre che insegnò loro il gusto per le parole, il
piacere della lettura, la cura della scrittura. Da lei Rina aveva anche
imparato a giocare, cosa che insegnano tutte le mamme. Come dei giochi, serbò
il ricordo delle ninnananne materne: «Ma la mia patria vera\ è su questo
quadrato di terra\ da tutti abbandonato,\ dove mormora un vento di ninnenanne\
non mai dimenticate» e dove «nelle notti di maggio\ i grilli cantano
inascoltati nella desolata finitudine\ dei torrioni corrosi».
Lei
era tornata nel Salento e aveva ripreso l’insegnamento, cercando quella
pienezza di vita di cui aveva narrato nel romanzo scritto a 36 anni, che non
era, come è stato scritto, un mondo scomparso senza morale e perduto in un
destino di animali, ma dove aveva raccontato di una pienezza di vita simile a
quella delle tante male piante che crescono sulle zolle salentine. Da noi, dice
ancora Forcina, ci sono ancora campi di gramigna, cardi e papaveri che, quando
non subiscono i diserbi per far attecchire nuove culture o la selezione per chi
deve crescere e chi deve morire, esplodono con una miriade di sfumature di
verde e giallo e rosso in una pienezza di vita smisurata, che ha varcato il
limite, ma non può non essere amata e dove la trasgressione improduttiva delle
campagne è tenerezza lieve delle foglie che «affina i sensi e dilata le
emozioni».
Per
tutto questo grumo di storie di vita, il lavoro di Caterina Gerardi rilancia in
maniera forte, piacevole, documentata questa figura iniziatrice dell’autonomia e
dell’autorità – per usare un termine rilanciato da Luisa Muraro - culturale
delle donne salentine e non solo. La maestria di Caterina, la dolcezza nel
narrare l’amica fanno sì che cd e testo non siano la documentazione asettica di
una vita e di un’opera, ma sono la storia di una donna che ha fatto scelte
coraggiose da tutti i punti di vista, sulla propria pelle, senza chiedere
rimborsi materiali e morali, e sempre con l’ironia, segno di una fine
intelligenza pronta a ridimensionare se stessa e la vita.
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