domenica 9 giugno 2013

Da "Storie di gatti"

Noi, sull'isola di Rina
A voi, una pagina della scrittrice salentina, “Storie di gatti”, da La Zagaglia, rivista di letteratura edita a Lecce

 di Rina Durante

Volti appena intravisti, che stanno in casa mia come nella loro. Sono qui da quando papà entrò in agonia. Subito dopo la morte si son messe in movimento, hanno cominciato a rimuovere quadri, a spostare mobili, a cambiare di posto gli oggetti, occupando tutta la casa, ogni stanza, ogni cantuccio. Finché la casa si è completamente trasformata, come se sotto le loro mani avesse scoperto un volto segreto di cui prima non avresti sospettato l'esistenza. Non è più quella di prima, ma un'altra completamente intonata alle loro facce. E questo ti sorprende ora, ti ferisce quasi come un inatteso
colpo mancino; fa male questa realtà nuova aperta a tutti gli sguardi.
Come la casa, tutti qui sono rassegnati alla nuova situazione. Quello che mi separa nettamente da loro è questo. Per cominciare avrei voluto rimanere sola. Avrei potuto tentare di orientarmi. Il non aver potuto
farlo mi ha bloccata sin dal principio. E' stata cosa facile perciò liquidare il pianto. Solo ora che l'universale disapprovazione mi è significata attraverso sguardi freddi che mi culminano da ogni parte, solo ora mi prende il sospetto che dentro di me qualcosa non funziona più come dovrebbe. Quello che tu credevi letteratura è il fondo della tua coscienza, è questo dominio lucido del sangue, ha neutralizzato ogni istinto. Penso ai buoni letterati dell'ottocento che vagheggiavano l'isola selvaggia, luogo di ritrovamento della innocenza primigenia. Riconosco che ho paventato questo momento, ma che un desiderio covavo inconfessato di trovarmi faccia a faccia col mio io più profondo, sentimento
puro, istinto vergine, incontrollato, ancestrale. Ma questo incontro non si è verificato neppure ora. E' un po' triste.
Prosegue con ritmo costante l'arrivo dei visitatori. Arriva « lu cicatu ». Ma come è entrato qui?, domandano allarmatissimi gli occhi di zia Ninuccia, mentre lui siede, con vivo disappunto dei presenti, al funerale dei signori. Saettato da sguardi gelidi che neppure le sue pupille semispente possono eludere, « lu cicatu » dura nella sua posizione pochi minuti, poi esce con sollievo generale. Non ha dato la mano a nessuno. Se l'avesse fatto c'era il caso che inciampasse nel tappeto. A questo punto un riso lontano mi formicola nel petto, mi prefigura una possibile liberazione. Ne approfitto per muovere le gambe, accenno ad alzarmi. Le pupille di mia madre vibrano un disappunto feroce, m'impongo di non muovermi. I quattro ceri consumano tranquilli lo scarso ossigeno rimasto a disposizione. Guardo il cadavere di mio padre chiuso in un abito borghese. Non formulo nessun pensiero, ma il passato, il ricordo è un'unica cieca presenza che brucia nel petto. E' atroce che egli sia di fronte, disteso nella bara, vestito come un lord; che debba durare in questa posizione sino alla fine della cerimonia, mentre più logico sarebbe seppellirlo subito, prima che la puzza invada la stanza. Intanto mi ripugna scoprire che c'è in fondo un'intenzione segreta di considerarmi la sola capace di preoccupazione di questo genere.