Cuciture di Santa Scioscio
Collage di ritagli di immagini, frammenti di fotografie, matite, acquerelli, acetati con calligrafia cuciti su cartoncino
[Per ingrandire cliccare sulle immagini]
[…] Antonio, pugliese,
ed Ettore, napoletano, fanno parte come me di una delegazione dell’Associazione
Italia-Albania, che sarà ospite del Comitato per i rapporti con l’estero.
Entrambi i miei compagni di viaggio sono ex partigiani della Gramsci, il leggendario
battaglione composto interamente da italiani, tranne Samj Kotherja, il
comandante, eroi del popolo albanese. Essi dunque conoscono molto bene questo
paese che hanno percorso palmo palmo nei lunghi inverni della terribile guerra
fascista, e di quella ancora più terribile che combatterono accanto ai
partigiani albanesi, dopo l’otto settembre.
Racconta
Antonio: «Quando arrivò la notizia dell’armistizio, mi trovavo con la mia
divisione nei pressi di Kruja. Il nostro comandante di divisione diede subito l’ordine
di rispondere col fuoco a qualsiasi tentativo dei tedeschi di disarmarci, in
parole povere lui era contro i tedeschi, prima ancora che gli altri comandanti
italiani avessero dato direttive precise in proposito. L’ordine vero e proprio
di andare contro i tedeschi venne infatti a distanza di qualche giorno, un
ritardo fatale perché i tedeschi invece si organizzarono subito. Peccato,
perché in quel momento erano quattro gatti e noi li avremmo schiacciare in
poche ore. Le altre divisioni italiane, a differenza della nostra, attesero gli
ordini dall’Italia, ma nel frattempo i tedeschi, che invece avevano avuto
direttive precise, passarono subito all’azione, e fu per questo che, per quanto
incredibile possa apparire, quei quattro gatti riuscirono a disarmare il nostro
esercito. Tranne ovviamente i reparti che si erano subito organizzati, come il
nostro, appunto. Tu ora mi chiederai che fine fecero questi pochi reparti
italiani che presero subito le armi contro i tedeschi. Ebbene, devi sapere
che dopo i primi scontri, peraltro violentissimi, e con perdite enormi da ambo
le parti, un bel giorno scoprimmo che gli ufficiali se l’erano squagliata.
Proprio così: una mattina non si trovò più un ufficiale da nessuna parte.
Avevano capito che eravamo isolati, che dall’alto nessuno li pensava più,
nessuno ci avrebbe riforniti. Immagina che, ad esempio, il nostro
comandante, che pure era di sentimenti antitedeschi, quella mattina aveva
telefonato all’alto comando e aveva saputo da un povero furiere, che si trovava
ancora lì per caso, che non c’era più nessuno, che se l’erano filata tutti.
Quando la voce che non c’era più nessun comando, che eravamo abbandonati, si
sparse tra i soldati, cominciammo a consultarci febbrilmente sul da farsi.
Qualcuno gridava contro gli ufficiali vigliacchi, altri inveivano contro il
fascismo che ci aveva precipitati in quella tragedia, altri infine piangevano,
non sapendo che fare. Allora io chiamai quei compagni che conoscevo come
comunisti e gli dissi: “Compagni, io vado ad unirmi ai partigiani albanesi. Chi
la pensa come me, mi segua!”. Alcuni mi seguirono. Gli altri soldati si
dispersero per i monti, in cerca di ospitalità presso i contadini. Andarono ad
offrire le loro braccia in cambio di ospitalità. Era infatti accaduto un fatto
straordinario: Enver Hoxha, l’attuale presidente, aveva diffuso un proclama
alla popolazione, in cui diceva: “Una cosa sono i fascisti, un’altra il popolo
italiano. Date dunque aiuto e ospitalità ai soldati italiani sbandati”. Per
questo proclama, che forse molti italiani neppure conoscono, molte madri hanno
rivisto i loro figli dopo la guerra. Così, mentre io e i miei compagni
riuscivamo a metterci in contatto con i partigiani, gli sbandati trovavano
ospitalità presso i contadini: indossavano i loro costumi, lavoravano la terra,
facevano i muratori, portavano le mucche al pascolo, e in cambio ricevevano
cibo. Nessuno infatti li sapeva distinguere dagli albanesi, soprattutto i
tedeschi. Solo gli stessi italiani li riconoscevano a colpo d’occhio.
Per
questo i tedeschi si portavano appresso i fascisti. Li mandavano avanti. Quando
i fascisti, vestiti da semplici soldati, riconoscevano qualcuno, si
avvicinavano e dicevano: “Paisà, come te la passi qui?”. Attaccavano discorso,
quello ci cascava subito. Subito il fascista dava il segnale, sbucava la
pattuglia tedesca e faceva fuoco sul soldato sbandato, e dopo magari appiccava
il fuoco alla casa del contadino. Si, la situazione degli italiani in Albania
era terribile, ed era ancora l’inizio…». […]
Da “le parole di
Rina”, in "L’isola di Rina, Ritorno a Saseno", “Viaggio nel pianeta Albania”, pp. 84-87
(da Quotidiano di Lecce del 28
ottobre,
5 novembre e 20 dicembre 1990).