venerdì 17 maggio 2013

Leggendo L'Isola di Rina 2.



Cuciture di Santa Scioscio

Collage di ritagli di immagini, frammenti di fotografie, matite, acquerelli, acetati con calligrafia cuciti su cartoncino

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[…] Antonio, pugliese, ed Ettore, napoletano, fanno parte come me di una delegazione dell’Associazione Italia-Albania, che sarà ospite del Comitato per i rapporti con l’estero. Entrambi i miei compagni di viaggio sono ex partigiani della Gramsci, il leggendario battaglione composto interamente da italiani, tranne Samj Kotherja, il comandante, eroi del popolo albanese. Essi dunque conoscono molto bene questo paese che hanno percorso palmo palmo nei lunghi inverni della terribile guerra fascista, e di quella ancora più terribile che combatterono accanto ai partigiani albanesi, dopo l’otto settembre.
Racconta Antonio: «Quando arrivò la notizia dell’armistizio, mi trovavo con la mia divisione nei pressi di Kruja. Il nostro comandante di divisione diede subito l’ordine di rispondere col fuoco a qualsiasi tentativo dei tedeschi di disarmarci, in parole povere lui era contro i tedeschi, prima ancora che gli altri comandanti italiani avessero dato direttive precise in proposito. L’ordine vero e proprio di andare contro i tedeschi venne infatti a distanza di qualche giorno, un ritardo fatale perché i tedeschi invece si organizzarono subito. Peccato, perché in quel momento erano quattro gatti e noi li avremmo schiacciare in poche ore. Le altre divisioni italiane, a differenza della nostra, attesero gli ordini dall’Italia, ma nel frattempo i tedeschi, che invece avevano avuto direttive precise, passarono subito all’azione, e fu per questo che, per quanto incredibile possa apparire, quei quattro gatti riuscirono a disarmare il nostro esercito. Tranne ovviamente i reparti che si erano subito organizzati, come il nostro, appunto. Tu ora mi chiederai che fine fecero questi pochi reparti italiani che presero subito le armi contro i tedeschi. Ebbene, devi sapere che dopo i primi scontri, peraltro violentissimi, e con perdite enormi da ambo le parti, un bel giorno scoprimmo che gli ufficiali se l’erano squagliata. Proprio così: una mattina non si trovò più un ufficiale da nessuna parte.


Avevano capito che eravamo isolati, che dall’alto nessuno li pensava più, nessuno ci avrebbe riforniti. Immagina che, ad esempio, il nostro comandante, che pure era di sentimenti antitedeschi, quella mattina aveva telefonato all’alto comando e aveva saputo da un povero furiere, che si trovava ancora lì per caso, che non c’era più nessuno, che se l’erano filata tutti. Quando la voce che non c’era più nessun comando, che eravamo abbandonati, si sparse tra i soldati, cominciammo a consultarci febbrilmente sul da farsi. Qualcuno gridava contro gli ufficiali vigliacchi, altri inveivano contro il fascismo che ci aveva precipitati in quella tragedia, altri infine piangevano, non sapendo che fare. Allora io chiamai quei compagni che conoscevo come comunisti e gli dissi: “Compagni, io vado ad unirmi ai partigiani albanesi. Chi la pensa come me, mi segua!”. Alcuni mi seguirono. Gli altri soldati si dispersero per i monti, in cerca di ospitalità presso i contadini. Andarono ad offrire le loro braccia in cambio di ospitalità. Era infatti accaduto un fatto straordinario: Enver Hoxha, l’attuale presidente, aveva diffuso un proclama alla popolazione, in cui diceva: “Una cosa sono i fascisti, un’altra il popolo italiano. Date dunque aiuto e ospitalità ai soldati italiani sbandati”. Per questo proclama, che forse molti italiani neppure conoscono, molte madri hanno rivisto i loro figli dopo la guerra. Così, mentre io e i miei compagni riuscivamo a metterci in contatto con i partigiani, gli sbandati trovavano ospitalità presso i contadini: indossavano i loro costumi, lavoravano la terra, facevano i muratori, portavano le mucche al pascolo, e in cambio ricevevano cibo. Nessuno infatti li sapeva distinguere dagli albanesi, soprattutto i tedeschi. Solo gli stessi italiani li riconoscevano a colpo d’occhio.


Per questo i tedeschi si portavano appresso i fascisti. Li mandavano avanti. Quando i fascisti, vestiti da semplici soldati, riconoscevano qualcuno, si avvicinavano e dicevano: “Paisà, come te la passi qui?”. Attaccavano discorso, quello ci cascava subito. Subito il fascista dava il segnale, sbucava la pattuglia tedesca e faceva fuoco sul soldato sbandato, e dopo magari appiccava il fuoco alla casa del contadino. Si, la situazione degli italiani in Albania era terribile, ed era ancora l’inizio…». […]


Da “le parole di Rina”, in "L’isola di Rina, Ritorno a Saseno",  “Viaggio nel pianeta Albania”, pp. 84-87
(da Quotidiano di Lecce del 28 ottobre,
5 novembre e 20 dicembre 1990).

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